[ trad. it. di N. Gobetti, Einaudi, Torino 2018 ]
Che cosa significa per il professor Mendelsohn spiegare l’Odissea a un gruppo di undergraduate del Bard College? Cosa succede se al seminario decide di assistere l’anziano padre? Quali reazioni è in grado di provocare il testo antico in ogni persona coinvolta nella sua lettura? Il grecista Daniel Mendelsohn torna alla forma romanzesca a più di dieci anni dall’esordio narrativo (Gli scomparsi, 2006), lasciando che da questi interrogativi si origini un racconto erratico.
Seguendo il modello odissiaco e la tecnica narrativa omerica, il testo si snoda infatti tra differenti piani temporali e tematici, facendo della progressione dell’Odissea il binario principale da cui scaturiscono molteplici digressioni. Su questo primo asse, ovvero la ricapitolazione del poema da parte di un acuto studioso, si innesta la cornice entro cui vengono narrate le vicende epiche, cosicché al commento del docente si affianca il racconto di come un gruppo di ventenni reagisce alle imprese eroiche. Mentre la potenza evocativa dell’epica si dispiega gradualmente davanti ai loro occhi, il lettore viene trascinato nell’aula in cui si svolge una tipica lettura seminariale anglosassone, in cui gli studenti interpretano e giudicano le scelte poetiche di Omero e quelle etiche di Odisseo.
Ma è la presenza del padre a far scaturire il filone narrativo che si impone come punto nevralgico del romanzo. La metamorfosi da vecchio burbero a graffiante studente inizialmente stupisce il figlio, che comprende, poco dopo, il percorso al quale un’inusuale quotidianità può dare inizio. Come nella telemachia il figlio di Odisseo dà avvio alla propria Bildung mettendosi in mare alla ricerca dell’eroe, così la rinnovata vicinanza tra padre e figlio diviene per quest’ultimo l’occasione per cercare di comprendere in profondità il genitore e il loro rapporto. Ed è questa urgenza conoscitiva che permette al testo di aprirsi al racconto dei sogni infranti del vecchio Jay Mendelsohn (e dell’America degli anni ’40 in cui crebbe), dell’infanzia di Daniel e della sua vocazione letteraria, per arrivare infine all’ineludibile confronto con la morte del padre. Non è però quest’ultima a decretare per il figlio la tragica impossibilità della conoscenza, quanto piuttosto la sua stessa posizione esistenziale: «Un figlio, per quanto appartenga a suo padre, non lo conosce mai del tutto, perché il padre lo precede; ha sempre vissuto molto più del figlio, perciò il figlio non può mai mettersi in pari, arrivare a sapere tutto di lui» (p. 294). Il congegno narrativo messo a punto dall’autore ruota intorno a questo tentativo di comprensione che si fa progressivamente più profondo ma che non riesce a raggiungere le regioni più intime del sé e dell’altro. La maggiore importanza che il tragitto conoscitivo acquista rispetto all’approdo conclusivo tradisce inoltre la presenza di un ulteriore ipotesto. Il romanzo viene infatti arricchito dalla lezione del poeta greco Konstantinos Kavafis, di cui Mendelsohn ha curato l’opera omnia in edizione inglese. Del poeta alessandrino lo scrittore americano non recupera solamente la simbolizzazione dell’isola di Ulisse come spinta incessante al viaggio, contenuta nei celebri versi finali di Itaca, ma anche un’attenzione all’aspetto più malinconico dell’epica antica, il cui lato lirico e introspettivo diviene il focus della rilettura moderna.
L’equilibrata compresenza di livelli narrativi differenti e le sottili quanto affascinanti corrispondenze tra l’Odissea e le vite narrate, unite a una lingua piana e tagliente e alla padronanza del mondo omerico, sono gli elementi che rendono il testo la particolarissima storia degli effetti che il poema produce su un figlio e su un padre, che dalla condivisione della lettura – intesa come corpo a corpo con l’antico, come grimaldello per scardinare la propria immobilità fisica ed emotiva – vengono spinti verso territori ignoti, terribili eppure affascinanti, come quelli attraversati molto tempo fa dall’astuto Odisseo.
Lascia un commento